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I boia di Palermo dai diari di Giuseppe Pitrè

di Esther Di Gristina
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Il boia era, come il porta lanterna, l’essere più abietto della Giustizia. La livrea ufficiale di rito, era riprodotta sulle fogge italiane del XIV secolo, come tramanda il medico e antropologo Giuseppe Pitrè nei suoi scritti.

Il boia vestiva sempre con casacca, calzone, berretto e calze di panno, metà rosso e metà giallo sicché da un da un lato aveva il colore del sangue e dall’altro quello della morte. Non poteva sottrarsi all’abito, ma al bisogno poteva coprirsi con un cappotto di panno grossolano dietro il quale era disegnata la Forca.

La provenienza del boia era degna della sua professione: un condannato a morte o alle catene perpetue, che aveva ricevuto la Grazia della vita, a condizione che la togliesse ad altri, con tutte le forme legali della giustizia.

Il boia era pronto a tutte le chiamate. Num manca pri lu boja, diceva il proverbio. E chi passava davanti il carcere della Vicaria lo vedeva sempre seduto su una panca. Varie e diverse le pene, così come le diverse funzioni del boia.

Si racconta che, nel montare le forche e preparare il Piano di Santa Teresa (oggi piazza Indipendenza) a Palermo, in occasione della condanna inflitta ai cospiratori e compagni di Francesco Paolo Di Blasi, uno dei due boia (poiché ne occorrevano due) cadde giù per terra e si ruppe un piede. Rimasto inabile a giustiziare, si pensò subito a un altro: tra i condannati e liberi 20 si offrirono all’infame ufficio. Un esempio di caccia all’impiego, che dava un guadagno di appena 25 grani al giorno, contro i 35 che ne aveva il boia maggiore.

Anche il vasto Piano della Marina di Palermo era posto ordinario per grandi spettacoli, già teatro di raccapriccianti auto da-fè e di brillanti mostre d’armi, compresa la decapitazione di Andrea Chiaramonte, sotto lo sguardo del re Martino II. Così come la barbara luminaria dei Registri del Santo Uffizio che arsero in quel posto per tre giorni e tre notti davanti agli occhi atterriti del popolo.

Come segno della maestosità del regno e della giustizia feudale, all’ingresso delle terre dei Baroni, fuori Palermo, erano piantate in permanenza le forche. Le forche si elevavano alte in ragione della gravità del delitto: in altioribus furcis (“nelle più alte forche”), secondo la sentenza, venivano appesi i grandi assassini.

In altioribus furcis venne strangolata il 5 settembre 1789 la più fredda e cinica avvelenatrice del secolo: Anna Bonanno, soprannominata lavecchia di l’acitu. Alle quattro cantoniere (I Quattro Canti) di Palermo, in altioribus furcis venne giustiziato il parrucchiere Giuseppe Mantelletti, di anni 19, colpevole di aver ucciso un sacerdote. Mentre veniva compiuta su di lui l’umana giustizia, il cappellano ne benediceva il cadavere. Il corpo dello sventurato rimase fino a tarda sera penzoloni, come monito. Successivamente venne rimosso e trasportato, dentro una cassa, alla Chiesa dei Decollati, nel Vicolo di Sant’Antoninello Lo Sicco, dove veniva data sepoltura ordinaria dei rei di Stato. Nel frattempo, una folla infinita e superstiziosa si precipitava verso la forca: i popolani come lupi affamati si lanciavano per catturare un brandello della sozza fune, già divenuta prezioso amuleto.

I diari palermitani hanno pagine orrende di questi avvenimenti ma vengono descritti come se fossero cose ordinarie della vita, delle quali non ci si debba meravigliare.

Ben altro ha da fare il carnefice, se il giustiziere è stato un ladrone di campagna, se ha ucciso all’aria aperta, o se ha assassinato in un posto qualunque. In questi casi, il colpevole deve essere condotto al supplizio sopra un carro, con le mani legate alla corda della mula.

Fino alla metà del Settecento, la sorte era peggiore: il condannato veniva trascinato sopra una tavola per terra, a coda di cavallo. E i suoi resti rimanevano come pubblico esempio nei luoghi i cui i suoi misfatti avevano terrorizzato cittadini e campagnoli. Il corpo, se così voleva la sentenza, veniva squartato e distribuito ai vari paesi che ne reclamavano la triste eredità, poiché ne avevano sofferto le gesta feroci. I mulattieri trasportavano le infami membra dentro sacchi appositi.

Mani e testa mozzate, chiuse dentro gabbie di ferro, venivano attaccati agli archi e alle porte dei bastioni della città, alla vista del popolo. Il 19 Gennaio 1770, venendo da Messina, l’inglese Patrick Brydone scriveva: presso la città di Palermo passammo per un sito di supplizio, nel quale le membra squartate di un gran numero di ladroni erano appesi ad uncini come tanti prosciutti. Perfino alla porta della Vicaria, dove questi macabri trofei atterrivano gli occhi dei carcerati.

Mentre il secolo volgeva alla fine, le cose rimanevano le stesse. Il 5 maggio 1791, due montanari mezzi nudi furono trasportati, su carri tirati da buoi, a Porta San Giorgio, dov’erano state innalzate le forche. Una volta strangolati, gli vennero mozzate mani e testa: i loro resti furono appesi all’arco della porta, dove rimasero ingabbiati fin dopo la Rivoluzione del 1848.

La pena di morte veniva nella forma secondo che il delinquente fosse plebeo, o nobile o civile. La forca era per il basso popolo, seguendo l’odioso motto “la furca è pi lu poviru”. Per il nobile la decapitazione era molto rara, “more nobilium”. Altra forma di supplizio era la fucilazione, ma non ne troviamo, se non un solo esempio nell’anno 1796, nei confronti dei due militari.

Pazienti ricerche sopra un manoscritto del celebre Gabriele Castelli Principe di Torremuzza forniscono la dolorosa statistica delle esecuzioni capitali in meno di mezzosecolo (1752-1800): raggiunsero la cifra di 210, compresa una parte di esecuzione condonate.

La Sicilia era, in larga misura, abbandonata a se stessa, e far applicare la legge rappresentò un problema. Così come era stato nei secoli passati, la grande varietà di leggi e regolamenti incoraggiava la delinquenza. Poiché molte invasioni straniere avevano lasciato alle loro spalle unavarietà di leggi non codificate, estremamente difficili da comprendere o applicare; alcune si contraddicevano completamente l’una con l’altra.

La collaborazione con la polizia era quasi sconosciuta. Tranne quando le classi privilegiate volevano soffocare delle rivolte, o quando un informatore si serviva di questo mezzo per eliminare il rivale. Le Corti comminavano condanne severe e dissuasive: un inadeguato tentativo per nascondere l’inefficienza delle stesse corti nel far rispettare la legge e l’ordine, in una società complessa, disorganizzata, selvaggia e senza via d’uscita!

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