I FLORIO. Vincenzo: l’alba di un impero

Quando Vincenzo Florio prese le redini della società “Ignazio e Vincenzo Florio”, alla morte di suo zio Ignazio nel 1828, nacque “Casa Florio”. Dotato di un acuto senso degli affari e una straordinaria capacità di innovazione, Vincenzo Florio seppe sfruttare le opportunità offerte dal florido mercato mediterraneo, gettando le fondamenta per il futuro splendore della famiglia Florio.

Vincenzo Florio era calabrese di nascita ma siciliano d’elezione. Nacque infatti a Bagnara Calabra il 4 aprile 1799, ma crebbe a Palermo, dato che la sua famiglia vi si trasferì lo stesso anno della sua nascita. Il giovane ricevette un’ottima istruzione e dal 1819 al 1825 viaggiò per l’Europa, tornando a Palermo carico di idee. Una di queste divenne quasi un mito per la famiglia Florio.

Ospite di Benjamin Ingham (che a Palermo abitava pure lui in Via dei Materassai), in Inghilterra Vincenzo vide una macchina per ridurre in polvere il cortice (la corteccia dell’albero di china). Unito a sostanze alcoliche, dal cortice si ricavava il chinino: un prodotto usato come antimalarico e febbrifugo che fece la fortuna dei Florio.

Nel 1820 i Florio ottennero l’autorizzazione alla vendita anche di prodotti medicinali, passando dalla qualifica di aromatari a quella di speziali. Cosicché, nel 1824 Vincenzo e Ignazio acquistarono la macchina per il cortice, per cominciare a produrre in Sicilia il chinino, fino ad allora realizzato solo in Inghilterra. Questo chiaramente provocò l’insurrezione dei farmacisti palermitani, che producevano il chinino manualmente e si vedevano sottratto il monopolio.

Nonostante le proteste, i Florio riuscirono a iniziare la loro produzione di chinino. In questo modo passarono dalla semplice commercializzazione di prodotti altrui alla produzione in proprio, che negli anni successivi sarà estesa a tanti altri prodotti.

L’importanza di questo avvenimento lo si vede nell’insegna dei Florio, scolpita dallo scultore Quattrocchi e affissa per oltre un secolo sopra l’ingresso dell’aromateria. L’insegna raffigura un leone malato che si disseta sotto un albero di china. Simboleggia chiaramente il potere dei Florio: anche i più potenti, come il leone, il re della savana, può ammalarsi, ma basta comprare il chinino dei Florio, basta fare affari con loro, per tornare in forze. Questa insegna divenne l’emblema dei Florio, che ancora oggi si può vedere raffigurato sopra l’ingresso delle Cantine Florio a Marsala.

Ingresso delle Cantine Florio, lungomare di Marsala (foto di A. Patti, agosto 2023)

In Inghilterra Vincenzo vide anche altro. Arrivato al porto, infatti, non vide solo le navi in legno, le barche a vela, ma anche imbarcazioni in ferro: i battelli a vapore. Questo nuovo mezzo, che sfruttava il più innovativo motore a vapore, consentiva di accorciare i tempi di navigazione.

Nella prima metà del 1800, il governo borbonico concesse agevolazioni e premi per la costruzione di nuove imbarcazioni, che costituirono forti incentivi allo sviluppo dell’armatoria siciliana. Nel 1823 i Florio acquistarono in società uno shooner: l’Assunta, un’imbarcazione molto piccola che però segnava l’ingresso dei Florio nel settore dei trasporti marittimi.

Nel 1840 Don Vincenzo Florio acquistò il primo battello a vapore, il “Palermo”: il punto di partenza per la formazione della più grande flotta mercantile italiana. Al Palermo seguiranno tanti altri, tanto che Don Vincenzo arrivò a possedere 99 battelli a vapore.

Una legge borbonica impediva a un privato cittadino di possedere più imbarcazioni della marina regia. Quindi Vincenzo non poté comprare il 100esimo, ma se lo fece costruire d’oro da tenere sopra la scrivania.

Fu Benjamin Ingham a coinvolgere Vincenzo nella “Società dei battelli a vapore siciliani”, che utilizzava il piroscafo “Palermo” per i viaggi tra la Sicilia e Napoli. Almeno fino a quando non venne requisito: prima dai rivoluzionari dei moti del 1848 e poi dal governo borbonico.

I Florio acquisirono una grande autosufficienza finanziaria, già ai tempi della gestione di Don Ignazio. La grande liquidità di cui Casa Florio disponeva condusse i Florio a cominciare a concedere prestiti. Un’attività che negli anni successivi sfociò nella costituzione del Banco Florio.

Dal 1828 fino al 1850 circa, Don Vincenzo Florio investì in beni immobili, che gli fornivano rendite sotto forma di affitto. Chi aveva debiti con il Florio spesso ipotecava case e negozi. Quando il debitore non era in condizione di saldare il debito nei tempi stabiliti, Don Vincenzo sollecitava la vendita del bene ipotecato, comprandolo lui stesso, solitamente dietro un prestanome. Un’alternativa era la messa sotto “amministrazione controllata” del negozio del debitore, che gli garantiva la riscossione del debito.

Don Vincenzo Florio ampliò in maniera impressionante gli interessi di Casa Florio. Oltre alla vendita di spezie, trasportate nelle loro imbarcazioni e vendute nell’aromateria che rimase fino alla fine tra le proprietà dei Florio, la società si occupava anche della vendita di agrumi e zucchero.

Don Vincenzo si occupò anche di vino, entrando in diretta concorrenza con Woodhouse e Ingham, quando decise di fondare lo stabilimento vinicolo a Marsala. Lo stabilimento fu gestito inizialmente dal cugino di Don Vincenzo, Raffaele Barbaro, e poi dal cognato Giovanni Portalupi.

Gli inglesi scoprirono il vino Marsala, e iniziarono a commercializzarlo come “vino all’uso di Madera”. Sempre più richiesto all’estero, in special modo dalle classi sociali più elevate, gli inglesi diedero al vino il nome della città nella quale veniva prodotto: Marsala.

Lo stabilimento dei Florio venne impiantato sul lungomare meridionale di Marsala, vicino le aziende dei suoi competitori. Il complesso comprendeva i locali per la produzione, i magazzini, gli uffici e una palazzina a uso familiare che Don Vincenzo fece costruire per controllare le attività.

La produzione enologica era altamente tecnologica: delle macchine a vapore erano installate in alcuni locali. Erano utili per la costruzione delle alte botti, per il controllo della gradazione alcolica del vino e per il trasporto del prodotto sulle navi.

Lo zolfo fu un altro settore aperto da Don Vincenzo Florio. Egli vendeva il prodotto alla compagnia francese Taix et Aycard. In qualità di gabelloto, Don Vincenzo curò la gestione di 27 zolfare, delle quali 6 in società con altri imprenditori. Acquistò invece la zolfara di Bosco a San Cataldo.

Allo stesso modo, gestì diverse tonnare: Vergine Maria, Arenella, Solanto, Isola delle Femmine, Marzamemi, Favignana e Formica. Nelle tonnare, Don Vincenzo Florio introdusse un nuovo metodo per la cattura del tonno (il sistema a reti fisse) e un nuovo metodo per la conservazione del prodotto (tonno sott’olio, dentro barattoli ben chiusi).

Una proprietà d’eccezione fu la tonnara dell’Arenella. A poco a poco Don Vincenzo cominciò ad acquistarne la proprietà, dai diversi proprietari (il Principe di Fitalia, la principessa di Castelforte, il Principe di Niscemi, il duca Giuseppe Valguarnera e il monastero di San Martino delle Scale). Solo dal 1840 la tonnara appartenne interamente a Don Vincenzo Florio, che vi fece edificare la “palazzina dei quattro pizzi”, alla quale lavorò Carlo Giachery.

Palazzina dei Quattro Pizzi all’Arenella (foto di A. Patti)

Un altro settore fu quello del cotone e della seta. Don Vincenzo Florio installò una prima filanda nei magazzini del convento di San Domenico (dove oggi sorge l’Istituto di Storia Patria), che aveva in affitto. Nel 1844, le proteste delle monache del Monastero della Badia Nuova, costrinsero Don Vincenzo a spostare la filanda da Palermo a Marsala, dove però ebbe vita breve.

Le navi della flotta commerciale di Don Vincenzo Florio garantivano anche l’acquisto dell’acido solforico da tantissime zolfare, un’attività che portò alla creazione della Chimica Arenella, lo stabilimento chimico situato tra l’Arenella e Vergine Maria.

Fu grazie alle navi che Don Vincenzo Florio aprì i suoi commerci alle rotte più lontane e lucrose con l’America. E legato al commercio marittimo fondò la “Compagnia Palermitana di Assicurazioni Marittime” nel 1830.

Legata alle navi fu la nascita della Fonderia Oretea. Molti confondono la sala che si trova a Piazza Fonderia con i resti della Fonderia Oretea. In realtà, a Piazza Fonderia si trovano i resti della Real Fonderia, di proprietà del governo borbonico, che Don Vincenzo Florio gestì. La Fonderia Oretea nacque alla foce del fiume Oreto, fondata dai fratelli Niccolò Corrado e Francesco Sgroi ai quali Vincenzo Florio si associò.

La Fonderia venne spostata nel 1844 in un’area tra le attuali Via Mariano Stabile, Via Principe di Scordia, Via Onorato e Via Francesco Crispi. Divenne proprietà esclusiva dei Florio solo nel 1855. Nella seconda metà del Novecento l’area occupata dal complesso metallurgico venne riqualificata, e della fonderia dei Florio resta soltanto una strada: l’attuale Via Fonderia Oretea.

Legata alla fonderia era lo scalo di alaggio: un bacino di carenaggio fatto costruire da Don Vincenzo Florio, che fu il nucleo originario dell’attuale porto di Palermo. Del resto, la fonderia serviva innanzitutto alla riparazione dei battelli a vapore. Lo scalo di alaggio evitava anche di dover arrivare a Marsiglia o a Malta per la necessaria operazione di alaggio di un’imbarcazione, che consentiva la pulizia e la manutenzione delle carene e delle eliche. Purtroppo Don Vincenzo non vide completato lo scalo, terminato solo nel 1871.

Grazie ai battelli a vapore il governo borbonico diede ai Florio la concessione postale per il servizio tra Napoli e Sicilia. Per questo Don Vincenzo fondò l’“Impresa I. e V. Florio per la navigazione a vapore dei piroscafi siciliani” nel 1847.

Nell’Italia appena unificata dell 1861, la flotta dei Florio era una delle più avanzate del Mar Mediterraneo. Il nuovo Regno italiano ripartì i servizi postali sovvenzionati tra Rubattino, Accossato e Florio. Per l’occasione, nel 1862 Don Vincenzo diede vita a una nuova società: la “Piroscafi Postali di Ignazio e Vincenzo Florio e C.”

Don Vincenzo Florio fu impegnato tutta la vita nella costruzione di un vero e proprio impero economico. Da semplice aromatario, divenne un armatore. Per le sue abilità venne amato e osannato da alcuni, e odiato e temuto da altri. Dagli aristocratici, i cui valori Don Vincenzo disprezzava. Per la sua disinvoltura politica, anche dagli intellettuali, soprattutto quelli che finirono in esilio dopo i moti rivoluzionari del 1848.

La vita privata di Vincenzo Florio fu abbastanza vivace. Nel 1833 Don Vincenzo conobbe Giulia Portalupi. I due, colpiti da una grandissima passione, iniziarono una relazione. Dal loro amore nacquero: nel 1835 Angelina, nel 1837 Giuseppina e nel 1838 Ignazio.

La nascita del figlio maschio, l’erede di Casa Florio, fu determinante per la regolarizzazione di questa unione. Tuttavia Vincenzo e Giulia si sposarono soltanto il 15 gennaio 1840, dopo che lui riconobbe legalmente le figlie nell’ottobre del 1839.

La nuova famiglia visse in una grande casa con acqua corrente in Via dei Materassai 53, acquistata nel 1832, dove i documenti d’archivio attestano la residenza di Don Vincenzo Florio. Probabilmente era un appartamento vicino a quello nella quale la famiglia Florio aveva sempre abitato in affitto. Don Vincenzo Florio, piano piano, acquistò molti appartamenti in Via dei Materassai.

Via dei Materassai, Palermo (foto di A. Patti)

Fino al 1828 (alla morte di Don Ignazio) le proprietà della famiglia Florio erano la casa a Bagnara Calabra e l’aromateria al Piano San Giacomo, ampliata da Don Vincenzo con l’acquisto dei locali vicini e qualche magazzino.

Don Vincenzo cominciò a investire in proprietà immobiliari e ad acquistare le prime case di proprietà dei Florio. La prima grande proprietà fu la Villa dei Colli (l’attuale Villa Florio Pignatelli) in contrada San Lorenzo, che venne acquistata nel 1828 dal Barone Gabriele Chiaramonte Bordonaro.

Villa Florio-Pignatelli (foto di A. Patti)

Don Vincenzo Florio occupò molte posizioni di prestigio. Per la sua sopracitata disinvoltura politica, riuscì a mantenne la carica di vice presidente della Camera Consultiva di Commercio di Palermo, assunta sotto il governo rivoluzionario, quando tornarono i Borbone.

Nel settembre 1850 ottenne l’ambita nomina di Governatore Negoziante del Banco Regio dei Reali Dominii al di là del Faro. Per Don Vincenzo era una carica di prestigio, poiché gli dava quell’autorevolezza utile agli affari del Banco Florio. A livello internazionale aveva contatti con Rothschild, del quale divenne rappresentante a Palermo.

Con i Savoia al potere, nel 1861 fu Presidente della sede palermitana della Banca nazionale, e nel 1863 divenne presidente della Camera di commercio palermitana. Dal 1864 Don Vincenzo Florio fu senatore del Regno d’Italia.

Vincenzo Florio morì l’11 settembre 1868, all’età di 70 anni. Ammirato e onorato dai suoi dipendenti, ai quali si deve la statua che lo ritrae, inaugurata nel 1875, e che ancora oggi si trova al Foro Italico, vicino Porta dei Greci.

Statua di Vincenzo Florio al Foro Italico (foto di A. Patti)

Bibliografia e sitografia

  • Daniela Brignone (a cura di), I luoghi dei Florio. Dimore e imprese storiche dei “viceré di Sicilia”, Rizzoli, Prato 2022;
  • Orazio Cancila, I Florio. Storia di una dinastia imprenditoriale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019;
  • Vincenzo Prestigiacomo, I Florio. Regnanti senza corona, Nuova Ipsa Editore, Palermo 2020.

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