I pani votivi di S. Giuseppe a Chiusa Sclafani e la mostra etnografica di Palermo 1891-92

“Non capita tutti i giorni che un aspetto marginale di un grande evento urbano, volto a celebrare i fasti industriali della Sicilia tardo-ottocentesca, ispiri, ancora ai nostri giorni, un saggio sulla religiosità popolare in un piccolo comune rurale come Chiusa Sclafani, tuttora scarsamente collegato con il capoluogo di provincia[1]. Così lo storico Pippo Oddo iniziava la sua presentazione al volume “I pani votivi di S. Giuseppe a Chiusa Sclafani e la mostra etnografica di Palermo 1891-92 di Mario Liberto.

Qual è il nesso che lega il grande evento urbano, come l’Esposizione Nazionale di Palermo, volto a celebrare i fasti industriali della Sicilia tardo-ottocentesca, con il piccolo paese di Chiusa Sclafani.

Il 15 novembre del 1891 re Umberto I e la regina Margherita, accompagnati dal capo del Governo, il siciliano Antonio Starabba, marchese di Rudinì, che aveva da qualche mese sostituito il conterraneo Francesco Crispi, dal ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Bruno Chimirri, e dal presidente della Camera, Giuseppe Marcora, inauguravano la “IV Esposizione Nazionale Italiana” di Palermo,1891. Fu la prima nel sud Italia, organizzata con il sostegno di Francesco Crispi. La mostra, i cui padiglioni furono progettati dall’architetto Ernesto Basile, nello spiazzo, «allora sgombro di palazzi», dell’attuale piazza S. Oliva, venne inaugurata dal 15 novembre di quell’anno e restò aperta fino al 5 giugno 1892.

Fu articolata in dodici divisioni, su un’area di 130 mila mq, di cui 70 mila coperti (Patrimonio distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale); ebbe 7.000 espositori, e furono emessi 1.205.000 biglietti. A Palermo si contarono ben 8.000 espositori, a fronte dei 7.000 registrati, dieci anni prima, in occasione dell’Esposizione Nazionale di Milano.

La rassegna durò fino al 5 giugno dell’anno dopo e fu scandita da una serie di incontri mondani nella «regale» Sala delle Feste. Si tennero gran balli e concerti, gare orchestrali e un torneo internazionale di scherma nell’annesso giardino e nelle gallerie. “Tra il pubblico i più eleganti «zerbini» della Palermo bene, fanciulle celestiali e raffinate nobildonne agghindate alla moda di Parigi. Furono organizzati eventi collaterali anche fuori dell’area attrezzata per l’Esposizione, il primo dei quali fu una serata di gala nella sfarzosa cornice del teatro Politeama illuminato a giorno e allietato dalla presenza di non poche dame della più eletta aristocrazia isolana, sfoggiami gioielli esclusivi e toelette décolletées, «con prevalenza del colore chiaro, ma abbastanza variegato […]. La contessa di Mazzarino con una ricchissima revière di brillanti, in abito chiaro, teneva il primo posto. Seguivano poi la principessa di Niscemi, in azzurro; la signora Agnetta in abito rosa; la marchesa di Ganzaria in rosso fuoco; la principessa di Scalea, le signorine di Sant’Elia in bianco, la signora Whitaker in celeste. Insomma una policromia di toni che bene esprimeva la diversità di gusti che, pur nell’unico stile liberty o stile floreale, come veniva chiamato, creava varietà e armonia».

Una delle ultime manifestazioni sensazionali fu la corrida de toros, che si svolse, il 10 maggio 1892, a Piazza Vittoria, «dove la statua di Filippo IV e il Palazzo reale, rafforzato dai viceré di Sua Maestà Cattolica, ricordano tanto la Spagna. Ampia la plaza seimila spettatori assistevano tutto all’ingiro alla tauromachia. L’ingegnere Francesco Borri di Palermo aveva ideato una specie di circo, con una opportuna disposizione di gradinate. Un bellissimo spettacolo, con quella quantità di signore in abiti chiari e cappelli di paglia minuscoli. C’erano tutte le autorità, compreso il console di Spagna, signor Zammit, al quale fu offerta la presidenza della corrida…». Grazie al calendario degli eventi esclusivi e alla magnificenza delle gallerie dei mobili artistici e delle sale delle Belle Arti, l’Esposizione Nazionale di Palermo è tuttora con­siderata dagli storici come il momento di lancio della belle èpoche di fine secolo in Sicilia.

Meno succulenti furono i frutti raccolti dal ceto politico dominante e dagli imprenditori isolani guidati da Ignazio Florio, che pure avevano investito molto sull’evento, e contavano su un forte sostegno del Governo guidato dal marchese Antonio di Rudinì, appena succeduto al corregionale Francesco Crispi.

Ad Orlando era succeduto Rinaldo, ricordavano i cantastorie di Palermo, ispirati dai pittori di carretti che raffiguravano «i due eroi della leggenda» con i tratti degli statisti siciliani che s’erano alternati alla guida del Governo.

A giugno la rassegna fu chiusa, in tono minore e un po’ malinconico, solo dal principe Luigi di Savoia, duca degli Abruzzi, non già dal re e dalla regina. «Tranne che per la Fonderia Oretea – ha scritto Francesco Brancato -, la Sicilia non fu in quella Esposizione certamente tra le regioni industrialmente più rappresentative, come non lo furono del resto in generale tutte le regioni meridionali. Nessuna rappresentanza siciliana nella sezione della bachicoltura, né in quella dei filati e dei tessuti di cotone. I numerosi campioni esposti da siciliani nella sezione dell’industria tessile presieduta dal cav. Edoardo Varvaro, uno dei più grossi negozianti di Palermo, erano prodotti vari confezionati non sempre localmente (abiti, marsine, cappelli, scialli, calzature, ecc.)».

Concepito come grimaldello per ridare fiducia alla Sicilia e al Mezzogiorno, duramente colpiti dalla guerra tariffaria con la Francia, l’evento ambiva a candidare l’Isola a stazione turistica invernale. Ma purtroppo, anche sotto quest’aspetto, fu un quasi fallimento; e la stampa più attenta non omise di denunciarlo: «Si voleva approfittare dell’Esposizione per accreditare Palermo come tappa invernale per migliaia di esseri felici, i quali possono obbedire all’istinto fisiologico che attrae l’uomo verso le mete calde. Quanti profughi dalle gelide nebbie settentrionali non si sparpagliano, come un passo di uccelli migratori, per le rive del Mediterraneo, da Nizza ad Alessandria d’Egitto? […]. Se una volta, attirati da un’occasione straordinaria e da straordinarie facilità di viaggio, i ricercatori di primavera fossero venuti in gran numero a Palermo e avessero potuto passare i mesi più rigidi dell’anno fra i boschi d’aranci sui quali Monreale torreggia, o in mezzo agli uliveti siracu­sani, il credito della Sicilia come residenza invernale si sarebbe d’un tratto assodato, e il benefizio se ne sarebbe immediatamente risentito».

Tra gli spazi espositivi della rassegna palermitana non si rilevò privo d’interesse quello riservato alla Mostra Etnografica Siciliana, ordinata dal medico palermitano Giuseppe Pitrè, il più autorevole studioso italiano del folklore e delle tradizioni del popolo. E facile immaginare «quale significato acquistasse l’esposizione di quella notevole quantità di oggetti, pazientemente raccolti e disposti nell’ordine più opportuno, per far conoscere ai visitatori “le vere forme e manifestazioni – come scrisse lo stesso Pitrè nel catalogo da lui preparato – della vita materiale e morale, pubblica e privata dei Siciliani”: cosa che acquistava maggiore rilievo anche per il momento in cui la mostra si svolgeva, riferendosi quegli oggetti in particolare alla vita dei contadini nei comuni rurali allora già entrati qua e là in agitazione». Sarebbe però ingeneroso, innanzitutto nei riguardi dell’insigne folclorista palermitano (che fu anche un infaticabile organizzatore culturale, capace di tenersi in corrispondenza con un numero incredibile di collaboratori sparsi in ogni contrada dell’Isola), non tener conto del prezioso contributo offerto alla Mostra Etnografica del 1891-92 da una vasta schiera di raccoglitori di rudimentali attrezzi di lavoro ed altri oggetti connotativi della cultura materiale e spirituale del mondo agro-pastorale nell’entroterra siciliano.

Tra coloro che, nel novembre 1891, inviarono reperti etnografici al Comitato organizzatore della Mostra si rilevò degno di particolare menzione un certo Lo Cascio Mangano di Chiusa Sclafani (nonno del famoso Maestro del Jazz, Claudio Lo Cascio), esponente di «una delle famiglie più facoltose del paese». La «gentile mediazione» dell’agiato galantuomo fece sì che la Mostra Etnografica potesse esporre alcuni lacci da bracconiere e un maestoso pane di San Giuseppe dal peso di 12 kg e il diametro di un metro e mezzo, tipico Gucciddatu votivo (confezionato a gloria del “Padre della Provvidenza” dalle donne di Chiusa Sclafani), «pane di semola in forma di ciambella così gran­de che per mettersi in forno esige lo allargamento della bocca di questo».

Inoltre il signor Lo Cascio Mangano fece pervenire al Comitato i berretti da contadini e, soprattutto, i 32 pani di San Giuseppe di Chiusa Sclafani. D’altra parte non può destare meraviglia che un signorotto di paese, cui la povera gente del luogo dava del Voscenza, s’interessasse di folklore: le indagini demologiche, a partire dagli studi di Luigi Maria Lombardi Satriani, hanno dimostrato magistralmente che, vivendo a contatto con i ceti subalterni, non solo i più avveduti rampolli della borghesia rurale come Salvatore Salomone Marino, ma persino alcuni aristocratici di antico lignaggio dallo spessore culturale di Serafino Amabile Guastella e Raffaele Lombardi Satriani hanno speso il meglio delle loro risorse intellettuali investigando quello che Giuseppe Cocchiara ha definito «il patrimonio delle tradizioni del popolo».

“Naturalmente il nome del signor Lo Cascio Mangano non può essere accostato a quelli dell’insigne medico di Borgetto, del “barone dei villani” della Contea di Modica e del nobiluomo di San Costantino di Briatico, ma va dato nondimeno atto al galantuomo di Chiusa Sclafani che, grazie alla sua sensibilità – e perché no? – alla sua grande intraprendenza, centinaia di migliaia di visitatori dell’Esposizione Nazionale di Palermo, provenienti da ogni parte d’Italia, e persino dall’estero hanno potuto ammirare i curiosi berretti dei contadini del suo paese, alcuni lacci da bracconiere (testimoni silenti delle strategie di sopravvivenza della povera gente) e, soprattutto, i pani di San Giuseppe, frutto della inconsapevole cultura creativa delle sue compaesane: cose, insomma, che conferivano all’evento palermitano una nota di colore non meno esotica, forse, di quella suscitata dalla presenza dei tucul e dei tamburi africani nella contigua Mostra Abissina.

Si tenga peraltro conto che non era impresa da nulla, nel novembre 1891, portare o inviare merce a Palermo dai paesini dei monti Sicani, ove si consideri che a quell’epoca la ferrovia si arrestava a Corleone Sclafani non disponeva di strade degne di questo nome. Volendo attraversare l’interno della Sicilia, allora «era uopo che vi si accingesse con quel rassegnato coraggio di chi si accinge nell’esplorazione dell’Africa», amava dire Serafino Amabile Guastella. A parte lo stato penoso in cui versavano le trazzere regie, i malfattori che vi bazzicavano erano tanti che bisognava ringraziare san Giuliano, protettore dei viandanti, se si arrivava incolumi alla meta. Non a caso i benestanti viaggiavano sempre con la scorta di un paio di campieri armati.

I pani votivi non erano, infatti, solo beni alimentari: erano, e continuano ad essere, anche autentici capolavori d’arte plastica effimera, adesso degni di essere usati come soprammobili e un tempo come preziosi talismani, capaci di consentire alla povera gente di affrontare «in regime protetto», come soleva dire Ernesto De Martino, «la presenza del negativo nella storia». L’uso dei pani di San Giuseppe in funzione apotropaica da parte degli abitanti di Chiusa Sclafani: «Durante le tempeste, quando la natura può mettere in pericolo la vita della comunità, si spezza un pezzo di pane benedetto e si butta in strada», recitando una colorita orazione a Santa Barbara, la miracolosa Patrona dei fulmini, cui si è ispirato, in un suo celebre romanzo, lo scrittore sudamericano Jorge Amado.

Nel corso dei decenni molte fogge di questi pani votivi non venivano più realizzate rischiando di perdere un patrimonio etnoantropologico davvero singolare.

Attraverso una ricostruzione delle immagini che il Pitrè era riuscito a realizzare attraverso una raffigurazione a zincotipia delle varie di fogge di pane e le interviste condotte con alcune persone anziane del paese si sono potuti ricostruire i pani che furono presentati alla Mostra etnografica di Palermo del 1891-92. Tra i pani votivi la cui presenza a Chiusa Sclafani è documentata dall’Ottocento ai nostri giorni ce ne sono alcuni di cui Pitrè non ha fornito il nome, bensì il disegno. Tra questi il pane del dubbio, chiaramente ispirato da un noto passo evangelico (Mt 1, 16-25), che la cultura popolare siciliana inter­preta da sempre con un approccio fin troppo umano e pur sempre rispettoso della volontà divina. Ne fa fede una leggenda raccolta a Partinico da Enrico Somma, nei primi anni novanta del secolo scorso, dalla viva voce di una popolana di 82 anni:

 “La ricerca dei cocci sparsi della cultura contadina della sua Chiusa Sclafani, Liberto si è sobbarcato ad un’ennesima faticata per ricostruire ciò che resta (nella memoria di quelle biblioteche ambulanti che sono gli anziani e nell’apparato celebrativo della festa dei nostri giorni), non solo dei pani votivi di San Giuseppe, ma anche delle caratteristiche originarie della sacra ricorrenza di marzo.

Inoltre, il materiale raccolto è stato utilizzato per la stesura di un volume che è stato impreziosito con pazienza certosina di alcune fonti edite e d’archivio e persino una vecchia tesi di laurea risalente a qualche mese successivo allo sbarco alleato.

La devozione al Patriarca San Giuseppe, a Chiusa Sclafani, ha un cuore antico, a giudicare anche dall’esistenza di un artistico simulacro ligneo, forse di bottega napoletana, costruito all’inizio dell’Ottocento, in sostituzione di una statua precedente di cui si conserva la memoria nel locale Archivio parrocchiale.

Nel 2006 l’ Accademia Internazionale “EPULAE” per la Formazione di Maestri Sommelier Enogastronomi Esperti Degustatori e per la Promozione della Cultura Enogastronomica e dell’Analisi Sensoriale degli Alimenti, sede regionale della Sicilia, presentava istanza al l’Assessorato regionale dei beni culturali di Palermo  chiedendo l’iscrizione dei “Pani votivi di S. Giuseppe di Chiusa Sclafani” al R.E.I.S. Registro delle Eredità Immateriali della Sicilia. Secondo la Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale (The Convention for Safeguarding of the Intagible Cultural Heritage), approvata dall’UNESCO il 17 ottobre 2003, le Eredità Immateriali sono “l’insieme delle pratiche, rappresentazioni, espressioni, conoscenze e tecniche – nella forma di strumenti, oggetti, artefatti e luoghi ad essi associati- che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui, riconoscono come parte del loro patrimonio culturale”.

L’UNESCO ha recentemente posto al centro delle sue attività istituzionali la tutela e la valorizzazione delle Eredità Immateriali dell’Umanità, ma in Italia non esistono ancora norme specifiche per la loro salvaguardia. Per dare una risposta a tali considerazioni, l’Assessorato Regionale dei Beni Culturali, Ambientali e della Pubblica Istruzione ha istituito, con il D.A. n. 77 del 26 luglio 2005, il Registro delle Eredità Immateriali (REI) e il Programma Regionale delle Eredità Immateriali. Grazie al Registro delle Eredità Immateriali la Regione Sicilia ha posto in essere le attività essenziali per l’identificazione e registrazione delle proprie eredità culturali, contribuendo altresì alla loro salvaguardia, con particolare riguardo per quelle a rischio di scomparsa o alterazione, nonché alla loro adeguata promozione e fruizione, grazie al Programma Regionale delle Eredità Immateriali.

Il 28 aprile del 2008 al n. 111 veniva iscritta “Celebrazioni del pane votivo di S. Giuseppe a Chiusa Sclafani”, salvaguardando così una preziosità che rischiava di scomparire e perdersi nei meandri della storia.


[1]  I pani votivi di S. Giuseppe a Chiusa Sclafani e la mostra etnografica di Palermo 1891-92, Mario Liberto Presentazione Pippo Oddo

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