Il 29 agosto 1862 si consumò la battaglia dell’Aspromonte, uno scontro tra le truppe garibaldine e l’esercito regolare del neonato Regno d’Italia. Alessandro Barbero, noto storico italiano, spesso ha approfondito il contesto risorgimentale, analizzando le dinamiche politiche, militari e sociali che portarono a eventi come questo. Per comprendere le cause dello scontro, bisogna esaminare sia il contesto italiano sia quello europeo nei mesi e negli anni precedenti.
Contesto Italiano
Dopo l’unità d’Italia del 1861, il nuovo regno non era ancora pienamente consolidato. Mancavano ancora Roma e Venezia. E il Regno delle Due Sicilie, sebbene formalmente annesso, era in una situazione instabile.
Il brigantaggio meridionale si era intensificato, e il nuovo governo italiano, guidato da Cavour fino alla sua morte nel giugno 1861, e poi da Ricasoli e successivamente da Urbano Rattazzi, cercava di stabilizzare il Sud.
Garibaldi e la Questione Romana
Garibaldi, dopo la spedizione dei Mille e la consegna del Mezzogiorno a Vittorio Emanuele II, era convinto che la liberazione dell’Italia non fosse ancora completa senza Roma, ancora sotto il controllo del Papa con la protezione della Francia di Napoleone III.
Ma il governo italiano temeva che un attacco su Roma avrebbe portato a un conflitto con la Francia, il cui esercito era schierato a difesa dello Stato Pontificio. Il primo ministro Rattazzi cercò dapprima di contenere Garibaldi con la diplomazia, ma quando questi sbarcò in Calabria, decise di fermarlo con la forza.
Contesto Europeo a livello internazionale il 1862 era un anno di equilibri precari
La Francia di Napoleone III proteggeva il Papa e non avrebbe tollerato un attacco italiano su Roma, ma voleva mantenere un certo controllo sull’Italia senza rompere i rapporti con il Regno d’Italia, che vedeva come un alleato potenziale.
L’Austria, sebbene avesse perso il controllo della Lombardia nel 1859 con la guerra franco-piemontese, manteneva ancora il Veneto ma guardava con sospetto ogni tentativo italiano di espansione.
La Gran Bretagna, tendenzialmente favorevole all’unità italiana, non si sarebbe opposta a un’eventuale presa di Roma, ma non voleva tensioni con la Francia.
In Germania, la Prussia stava emergendo come potenza militare sotto la guida di Otto Von Bismarck, per unificare il paese. Ma non aveva un ruolo diretto nella questione romana. La sua politica di potenza influenzerà anche l’Italia: pochi anni dopo, nel 1866, l’Italia si alleerà con la Prussia contro l’Austria per conquistare il Veneto
Quando alla fine del Giugno 1862 Giuseppe Garibaldi ricomparve in Sicilia
L’entusiasmo della popolazione si scatenò. Sembrava essere tornati ai bei tempi della gloriosa spedizione dei mille del 1860. Ancora una volta Garibaldi partiva dalla Sicilia per un’azione di forza, volta a liberare, dall’occupazione francese.
A Marsala invitò gli astanti a seguirlo fino a Roma, e questi risposero: “O Roma , o morte”. Questo grido produsse un tremendo effetto su Garibaldi , che ne fece ritornello di tutti i successivi discorsi, così iniziò il suo pellegrinaggio attraverso luoghi della sua gloria: Salemi, Calatafimi, Alcamo, Corleone. Numerosi volontari affluirono a Palermo da tutte le parti, sfilando davanti alle truppe regolari piemontesi che li salutavano cameratescamente.
Le autorità non riuscivano a capire se li dovevano considerare amici o nemici. Ma tutti erano convinti che fosse la solita finta, come nel 1860. Cioè: la rivoluzione radiocomandata dal re che l’aiutava sotto banco, fingendo di sconfessarla.
Il Re e la repressione di Garibaldi
Il ruolo del Re Vittorio Emanuele II nella questione dell’Aspromonte fu delicato e ambiguo. Il Re aveva sempre avuto un rapporto particolare con Garibaldi: lo ammirava per il suo valore militare e la sua capacità di mobilitare le masse, ma al tempo stesso lo vedeva come un elemento difficile da controllare.
Il sovrano si trovava in una posizione scomoda, dovendo mantenere un equilibrio tra il sostegno a Garibaldi, eroe nazionale e strumento dell’unificazione, e la necessità di evitare un conflitto con la Francia e il Papa, che avrebbe potuto compromettere la stabilità del nuovo Regno d’Italia.
All’inizio, il Re lasciò che Garibaldi si muovesse liberamente, sperando che la situazione si risolvesse da sola o che Garibaldi desistesse. Tuttavia, quando divenne chiaro che il generale intendeva davvero avanzare verso Roma, il governo di Urbano Rattazzi, con il consenso del monarca, decise di intervenire spinto dalle pressioni internazionali.
Napoleone III fece sapere che non avrebbe tollerato un attacco garibaldino su Roma. Vittorio Emanuele II, che aveva bisogno dell’alleanza francese, non poteva ignorare questo avvertimento. Sebbene non fosse entusiasta all’idea di reprimere Garibaldi con la forza, accettò che l’esercito intervenisse per fermare Garibaldi. Il comando fu affidato al Generale Enrico Cialdini.
Nel frattempo, il 20 agosto 1862 Garibaldi era a Catania, dopo aver attraversato tutta l’isola, con la convinzione di avere il Re Vittorio Emanuele II dalla sua parte. Quando colonne dell’esercito regolare lo incontravano e gli intimavano l’alt, subito dopo averlo riconosciuto, gli lasciavano il passo.
Nella rada di Catania cerano alcune navi da guerra ma l’Ammiraglio Albini, interpretò a modo suo un ordine ricevuto da Torino, allora Capitale del Regno. Quindi permise a Garibaldi e ai suoi uomini di imbarcarsi su una flottiglia di barche a remi, e andare all’arrembaggio di due piroscafi alla fonda: uno con bandiera francese e l’altro con bandiera italiana.
L’ammiraglio Albini diede ordine ai suoi uomini di voltare gli occhi e i cannoni dall’altra parte. Alle quattro del mattino del 25 agosto 1862 i due piroscafi sbarcarono con duemila volontari sulla costa calabra. Fra Melito e capo dell’Armi: pressappoco lo stesso punto dello sbarco del 1860. E ancora una volta, come allora, una nave li bombardò, ma era piemontese, non borbonica. Si trattava di una finta per ingannare i diplomatici.
Verso l’Aspromonte
Garibaldi e i suoi uomini si incolonnarono verso Reggio Calabria. Ad un tratto udirono una scarica di fucileria: un distaccamento di soldati regolari. Quando i garibaldini gridarono che non volevano combattere contro di loro, essi ripresero a sparare. Non c’era scelta: attaccarli o evitarli ritirandosi verso l’interno, sull’acrocoro dell’Aspromonte. Senza esitare, Garibaldi scelse la seconda ipotesi.
Sull’Aspromonte pioveva a dirotto, i garibaldini non avevano viveri e la zona era aspra e brulla, non offriva nessun conforto. Non sapevano dove andavano, e nemmeno Garibaldi lo sapeva. La popolazione era ostile: i pastori vedevano in quegli uomini dei banditi e temevano per le loro greggi. Anche le guide risultarono nemiche. Il Generale Enrico Cialdini aveva dato ordine al Colonnello Emilio Pallavicini di disorientare i garibaldini corrompendo gli informatori. Essi guidarono i garibaldini per sentieri tortuosi, impervi e sfiancanti, per attaccarli e annientarliì all’istante.
Così, invece di condurre direttamente la colonna alla casetta forestale dell’Aspromonte, dove sarebbero bastate dieci ore di marcia, li fecero girare intorno per quattro giorni e quattro notti. La casetta dell’Aspromonte, avevano assicurato le guide, era un deposito di rifornimenti, ma i volontari la trovarono vuota. Garibaldi contò i suoi uomini: da duemila si erano ridotti a cinquecento, tutti gli altri si erano sparpagliati in cerca di cibo e non tornarono più.
Lo scontro sull’Aspromonte avvenne la mattina del 29 agosto 1862. Le truppe mandate a fermare Garibaldi erano al comando del Colonnello Emilio Pallavicini di Priola: fra i più famosi ufficiali del Risorgimento, uno che odiava Garibaldi, avendo avuto degli scontri verbali con lui. Quindi Pallavicini scese in campo con forte determinazione: con circa 3500 bersaglieri. Garibaldi li scorse da lontano, fece arretrare i suoi uomini ai margini del bosco con l’ordine preciso di sparare. Ma era convinto che, una volta di fronte a lui, quei soldati si sarebbero uniti ai suoi volontari per marciare tutti insieme su Roma.
Perciò Garibaldi si mise avanti , bene in vista, con la sua camicia rossa e il suo “poncho” grigio”. I bersaglieri continuarono ad avanzare e giunti a cento metri, dopo uno squillo di tromba, cominciarono a sparare senza farsi scrupoli. Garibaldi venne colpito alla coscia sinistra e al piede destro, lo trasportarono sotto un albero , mentre i bersaglieri continuavano a sparare. A questo punto i garibaldini risposero al fuoco.
Lo scontro durò circa 10 minuti: sufficienti per causare 12 morti (5 garibaldini e 7 regolari) e 34 feriti (14 regolari e 20 garibaldini). Poi tutti si trovarono intorno all’albero sotto il quale giaceva Garibaldi. Nell’immediato soccorso, il generale venne assistito dai medici al suo seguito: il chirurgo palermitano Enrico Albanese e i medici Basile Giuseppe e Pietro Ripari.
Mentre i soldati regolari e i garibaldini fraternizzavano, il Colonnello Pallavicini, chinatosi sul ferito, gli intimò l’arresa. Garibaldi annuì e Pallavicini fece arrestati tutti i garibaldini: alcuni, essendo disertori del Regio Esercito, furono fucilati sul posto.
Il generale Pallavicini fu poco clemente con Garibaldi, perché seguì con fermezza gli ordini del governo. Tuttavia, la sua azione fu vista da molti come troppo severa, e la repressione ai garibaldini sull’Aspromonte rimase un episodio controverso nella storia del Risorgimento italiano.
Dopo la battaglia
Giuseppe Garibaldi, catturato da truppe regolari italiane, venne trasportato prima a Scilla e poi a Reggio Calabria. Il 5 settembre, fu imbarcato sulla nave Duca di Genova e trasferito a La Spezia.Venne ricoverato presso il forte del Varignano, che era stato adibito a ospedale militare. Le cure mediche furono affidate a un’equipe di specialisti italiani e stranieri.
La ferita si rivelò più grave del previsto, poiché il proiettile non era stato completamente rimosso e causava infezioni e dolori intensi. L’intervento decisivo fu eseguito solo il 23 novembre 1862, dal dottor Ferdinando Palasciano, insieme ad altri medici, tra cui il chirurgo francese Nelaton, che utilizzò una sonda particolare per individuare e rimuovere il proiettile rimasto incastrato nel piede.
Garibaldi rimase chiuso nella fortezza di Varignano, dove migliorò lentamente, senza però recuperare completamente la mobilità della gamba ferita. Nel frattempo,“vennero festeggiate con la distribuzione di 76 medaglie al valore, le truppe regolari che furono protagoniste di questo eroico fatto d’arme”. E nel contempo veniva avviata “l’incriminazione per Garibaldi”.
Garibaldi riuscì a mobilitare una vasta rete di amicizie, contatti e solidarietà e poté dimostrare che era stato incoraggiato “sottobanco dal Re”. Si fece sapere che, se a Garibaldi fosse successo qualcosa, sarebbero saltate fuori le prove schiaccianti del coinvolgimento diretto di Vittorio Emanuele II. E così il Re concedette l’amnistia, un intrigo tutto italiano.
Del resto, Garibaldi, dopo la cattura e la prigionia, non fu trattato mai come un criminale, ma come un prigioniero illustre. Il sentimento popolare favorevole all’eroe dei due mondi e al mito garibaldino rimase intatto. Ciò contribuì alla sua rapida liberazione: dopo pochi mesi, nel 1863; senza che il Re si esponesse pubblicamente in sua difesa.
In seguito,Vittorio Emanuele II continuò a cercare una soluzione diplomatica, ma la presa di Roma fu soltanto rimandata, di otto anni. Al 20 Settembre 1870, quando la Francia, indebolita dalla guerra franco-prussiana, ritirò le sue truppe a difesa dello Stato Pontifico. A quel punto, l’esercito italiano, con i bersaglieri, poté entrare da Porta Pia nella futura Capitale d’Italia.