La città si risvegliava in quella serata di quasi estate e di luna piena, e risplendeva su questa città di magica atmosfera di notte vissuta a festa. Quei bagliori lontani c’invogliavano ad avvicinarci nelle vie del centro storico in un fine settimana di una fresca e piacevole serata.
Lungo quello che è chiamato il Cassaro, udivo debolmente sul cielo di un paesino, al di là di un verde poggio, continui e serrati scoppiettii di varie luci colorate. Era la ricorrenza del Santo Patrono a far festa. Riuscivo a scorgerne i fuochi d’artificio. Mi voltavo e tendevo lo sguardo verso il mare, lì al Foro Italico. E vedevo lanterne di carta trasparente color morganite, e che illuminavano insieme il cielo non più rosseggiato, col sole che era già disceso di là dalle lontane colline con le sferiche cime. Lanciate le lanterne da gente riversa su quel verde prato d’incantesimi e suggestioni, accarezzato dalle dolci onde marine, un angolo del cielo su quel prato diveniva leggermente purpureo. L’olezzo del mare era nell’aria e mi perdevo nell’ascoltare il suono delle onde che perennemente si riversavano su quei massi e ne intravvedevo i loro rigurgiti. Mi chiedevo da qual tempo il mare sciabordava su quella lingua di terra. E capivo che l’era prima che l’uomo mettesse piede sulla terra, quando vi era ancora solo la crosta terrestre e il mare e qualche mostruoso animale a governare il mondo. Col calar pigro del sole di là dai crinali di quelle lontane stondate colline, faceva posto all’oscurità della notte e debolmente apparivano piccoli luccichii di stelle nella volta celeste. Con sfingea espressione chiedevo alla mia sposa: “Or tu dimmi! Non è meraviglia questa? Non è incantesimo? Forse magia”.
L’allegria era percepibile nell’aria festante in una notte di movida e la gente rumoreggiava gioiosamente. Ero con la mia donna, mano nella mano, e la strada si faceva sempre più affollata di gente. Dal Foro Italico, raggiungemmo i Quattro Canti, non prima di esserci incamminati verso quella che è stata a lungo, da tempo immemore, la strada principale di questa città: il Cassaro. Era uno spettacolo di bancarelle e piccoli chioschi, e venditori allegri smerciavano bibite e cibo da strada, che era adornata di piante di ogni genere e dai molteplici colori. Vedevo, sorridenti, molti turisti scesi da una nave da crociera che in questo porto di mare fan tappa. La via è un susseguirsi di antichi e nobili palazzi e chiese che sembrano accostate tra loro, tanta è la concentrazione in questa zona di città. E una luna piena e ridente faceva compagnia alle luci dei riflettori.
I fari, con le luci colorate, si stagliavano sugli edifici e sulle fontane di queste splendide piazze, e sulle tre cupole rosse di quella chiesa col suo fascino di epoche lontane: la chiesa di San Cataldo, a piazza Bellini, accanto alla chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, più nota col nome di chiesa della Martorana. Ma la luna non aspettava e, pur benevola, con la sua luce opalescente, andava sempre per la sua strada e si nascondeva sopra i tetti. Tetti d’argilla lavorati da mani sapienti e forti. Marcato era il tipico odore del cibo da strada. Con la mia consorte, ci fermavamo ad assaporarne i gusti. Ricordi di tempi lontani ma vicini al mio cuore, di quando mi soffermavo, giovane, a gustarne i sapori. Bar e ristoranti all’aperto, brulicanti di
gente allegra e che faceva festa, alzando grandi calici di birra, e immortalavano con foto
momenti di vita vissuta insieme. E lunghe file di gente di ogni età che si assiepava lungo le strade principali dei tre mercati rionali della città: “Vucciria”, “Ballarò” e “Il Capo”. Lì, i forti odori del cibo di strada non si perdevano e ci accompagnavano lungo tutto il cammino, in mezzo alla gente che cercava ristoro nei tavolini che parevano incastonati nei vicoletti. Ci guardavamo, io e mia moglie negli occhi, sorpresi e pieni d’impeto e d’ardore, che brama gioventù rivissuta vicina a quei giovani briosi e pieni di vita, e scoprivamo di esserne involti nel loro spirito gioviale. Attratti da una dimensione irreale per una notte ridiventammo giovani anche noi. E bambini felici e chiassosi che si rincorrevano e, ridendo a squarciagola, si lasciavano trasportare coi loro pattini e parevano andare incontro alla vita. Un vecchietto seduto per terra e appoggiate le sue spalle al muro di un antico edificio, aveva uno sguardo sconsolato e perso nel vuoto e un basco, abbandonato sul selciato accanto a lui, faceva il suo dovere per raccogliere degli spiccioli per la sopravvivenza del povero diavolo. Pur pensando che avrebbe potuto essere una sua scelta quel suo modo di vivere, mi rattristava vederlo così e in quello stato di realistica sofferenza. Certamente, non aveva un tetto dove dormire. Mi avvicinai al vecchietto. Si respirava aria di miseria attorno a lui. Mi chinai sul basco della micragna e gli porsi una banconota. Ritornai dalla mia amata, seduta su una panchina. Un bambino si soffermava, madido di sudore. Mi guardava incuriosito e rimaneva immobile, finita che ebbe la corsa coi suoi pattini. Gli sorridevo. E lui, dapprima sospettoso, sorrise con me. Sorrideva alla vita. La sua era agli albori. La mia affondava in un dolce purpureo crepuscolo ove l’oscurità è ancor lontana.