La produzione agricola nella Sicilia in età moderna, fra crisi sociali ed epidemie

Da approndite ricerche, anche attraverso le fonti emerse dall’Archivio di Stato di Palermo, importanti notizie descrivono le condizioni della Sicilia del 1400. L’isola era ancora ricoperta da foreste, ma sul finire del secolo questo sarebbe cambiato. Lo sviluppo dell’industria zuccheriera, attraverso gli opifici con le sue complesse attività, si accingeva in parte a distruggere la boscaglia lungo la fascia costiera fra Termini Imerese e Carini, e in parte a trasformare la produzione agricola nella Sicilia agli albori dell’età moderna.

Nelle zone più interne dell’isola, per quasi tutto il XIV secolo la presenza della pastorizia fu in mano ai grossi allevatori, soprattutto nelle zone dei Nebrodi. Il Monastero di San Martino delle Scale rappresentava il fulcro del più importante allevamento di ovini, con circa 7000 capi nel 1462. Una lunga crisi democrafica, già in atto dalla metà del Trecento, faceva sì che la pastorizia sopportasse meglio dell’agricoltura le conseguenze dello spopolamento delle campagne.

Una peso importante aveva anche il lavoro degli emigrati. Tra il XV e il XVI secolo numerosi gruppi di epiroti e albanesi si accordarono con eclesiastici, laici e baroni per ripopolare vecchi casali e fondare nuove colonie. Nel Cinquecento, oltre alle squadre di calabresi che venivano adoperate per la zappatura e la mietitura, il Convento di San Martino delle Scale accoglieva e dava lavoro a parecchi spagnoli che si adattavano ai servizi più umili nelle campagne.

Palermo, all’inizio del Quattrocento, produceva più del suo fabbisogno di grano e formaggio. Due prodotti che importerà in maniera rilevante nei secoli successivi, mentre determinante resterà la concentrazione dell’industria zuccheriera. L’esportazione di vino dalla Sicilia era limitata; anzi il vino veniva importato dall’Italia meridionale, insieme all’olio della Catalogna.

Intorno al 1530 la Sicilia raggiunse i livelli massimi della sua capacità di esportazione granaia. Con una popolazione di 550.000 abitanti su una superficie di 25.432 kmq, e una densità di 21 abitanti per km², la Sicilia si presentava all’inizio del Cinquecento come una terra quasi spopolata.

Le epidemie del 1590, ebbero conseguenze disastrose per la società e per l’economia siciliana. Forse per la prima volta nella storia l’isola, la Sicilia fu costretta a chiedere grano alle terre che essa era solita sfamare. Mentre a Palermo, secondo le testimonianze dell’epoca, morirono circa 13.000 persone: il 10% della popolazione.

La carestia del 1591 porvocò una flessione della popolazione isolana. Questo si verificò un po’ in tutta Italia, specialmente nell’ Europa mediterranea. Fatto che portò con sé anche gravi conseguenze sull’esportazione della produzione granicola siciliana, che doveva competere con i grani del Nord Europa.

Le conseguenze negative provocate sia dalle carestie sia dalla crisi demografica del Cinquecento furono molteplici. Aumentò il numero di miserabili, mentre la base della società che era costituita da “salariati”. I più poveri del mondo contadino emigravano nelle grandi città, provocando intorno al 1570 le preoccupazioni delle autorità governative.

Città come Palermo e Messina si gonfiarono di aspiranti lavoratori. E molti paesi dell’interno dell’isola, dopo aver toccato la punta massima attorno al 1570, bloccarono la loro crescita demografica. La necessità di sfuggire alla miseria favoriva il vagabondaggio, la prostituzione e il banditismo . Quest’ultima, un’altra piaga della Sicilia che divenne famosa nel tempo.

Queste conseguenze erano dovute in parte alla miseria e in parte alla debolezza del potere politico, volto più che altro a reprimere gli effetti, invece che rimuovere le cause.

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