l marchese di Villamarina Domenico Caracciolo di anni 67, napoletano, di madre spagnola era stato nominato viceré dell’isola. La mattina del 15 ottobre 1781, accolto con gli onori di rito dalla rappresentanza municipale e dal gran stuolo di popolo, sbarcava sul molo di Palermo.
Uomo simbolo dell’illuminismo, onesto, pieno di coraggio e di raffinata intelligenza, con lui ebbe inizio il più grande e radicale programma di riforme degli ultimi secoli, era convinto che fosse sua missione riportare l’isola dalle tenebre del medio evo allo splendore dell’età moderna, e che perciò dovesse spazzar via le vestigia feudali, indrodurvi un sistema statale burocratico e centralizzato, favorirvi il progresso dell’economia e dei commerci. Senonchè al suo arrivo a Palermo, nella sua lotta contro il passato, egli non trovò l’appoggio della classe borghese, allora quasi del tutto inesistente nell’isola, e si scontrò subito con l’aristocrazia che seppure già in decadenza, e per suo conto desiderosa di cambiamenti, pur tuttavia non accettava di vedere limitati il suo prestigio e le sue prerogative e rifiutava il marchio di arretratezza che Caracciolo voleva imprimerle.
Il suo governo esordì con una circolare per cui ai funzionari e magistrati inculcava che ad ogni occasione si indirizzassero al Vicerè a Palermo, vietando loro (poi si vide inutilmente) di rivolgersi direttamente al re o al ministero. Liberalizzo’ il commercio del grano, e limitò ai nobili il numero delle cerimonie ufficiali da 340 a 17, cui era tenuto a partecipare il Senato di Palermo.
Contribuì attraverso iniziative all’abbellimento della capitale e decise di lastricare alcune strade e per sopperire alla spesa decreto’ una tassa sulle carrozze. Queste in città erano 784 ed appartenevano quasi tutte ai nobili, che, manco a dirlo, ritennero oltraggioso assoggettarsi alla tassa e decisero di non pagarla.
Con azione dimostrativa spettacolare, Caracciolo fece sequestrare allora il cocchio di una nobildonna e lo fece vendere all’incanto sulla pubblica piazza. Il 27 marzo 1782, sei mesi dopo il suo arrivo, procedette con grande con grande apparato all”abbolizione dell’inquisizione, il simbolo più audace dell’antico regime.
Successivamente, l’ordine del re fu che tutte le carte dell’inquisizione fossero bruciate; esse conservavano troppi segreti sia sullo stato che sulla chiesa, inoltre molte famiglie correvano il rischio di una sgradita pubblicità per avere adoperato l’inquisizione come strumento per perseguitare i loro nemici privati.
Particolare risentimento, suscitò quando il viceré cercò di interferire sulle feste di S. Rosalia. Infatti, nel 1783 il Caracciolo ordinò che le feste cittadine durassero solo tre giorni; mai nessun provvedimento suscitò tanta ostilità, e quando ricchi e poveri si sentirono ugualmente oltraggiati, la vita stessa del viceré fu minacciata e solo l’intervento del re fece annullare quell’attacco troppo audace.
Profonda avversione del Caracciolo nei confronti della nobiltà isolana, responsabile di condizionare la popolazione, se l’agricoltura era scadente, ciò era dovuto in buona parte al fatto che i proprietari consumavano tutti i profitti della terra e non vi reinvestivamo nulla, l’élite dirigente disprezzava il commercio e riusciva bene ad evadere le tasse. Fra i vari provvedimenti il viceré proibì l’usanza vigente nei territori baronali di sostituire le insegne del re con quelle del barone, e le truppe le uniformi militari private furono dichiarati illegali.
Il Caracciolo avrebbe desiderato che Re Ferdinando fosse venuto di persona, cosicché la gente potesse vederlo e rendersi conto del fatto che i baroni avevano un padrone, ma il re non mostrò alcun desiderio di voler visitare questo regno remoto e accessorio. Il Governo non possedeva nessun elenco delle terre dei baroni, questo era uno dei motivi fondamentali per cui la Sicilia rimaneva povera. Una precisa valutazione della proprietà era una premessa indispensabile per una riforma fiscale, ma tanto i baroni quanto gli ecclesiastici nel parlamento del 1782, vi si opposero fermamente. Le riforme del Caracciolo, suscitarono una ostilità immensa; era inevitabile che divenisse impopolare presso molte categorie di persone.
I suoi modi francesi erano troppo insoliti per questo mondo stagnante di provincia, come risultano di questo atteggiamento, si sviluppò un’ostilità molto più profonda nei confronti di Napoli, dando così la tradizionale formula che ogni governo era un nemico. In questo senso la politica del Caracciolo, conseguì un effetto opposto alle sue previsioni. Inorridito dal fetore nelle chiese, egli diede ordine di costruire fuori le mura della città, un nuovo cimitero, ma i becchini (e il clero che traeva consistenti guadagni dall’elemosina nelle chiese) riuscirono a mobilitare contro l’opinione pubblica.
Il Senato di Palermo da tempo aveva già proibito l’usanza di esporre pubblicamente le salme dei mendicanti per chiedere l’elemosina per il loro funerale, ma questa consuetudine durò a lungo dopo che il viceré tentò di impedirlo. Così i ricchi spadroneggiavano in quanto erano potenti e potevano recarsi a Napoli a intrigare contro i Caracciolo, i contadini non avevano nessun contatto col governo e non possedevano nulla per far conoscere le loro posizioni. Mentre Napoli era disposta ad appoggiare il viceré in quanto capiva che l’aristocrazia siciliana rappresentava una minaccia per la stessa capitale e per la monarchia, fu chiamata perfino la corte di Spagna perché appoggiasse l’opposizione contro il viceré.
Fu allontanato onorevolmente promuovendolo a succedere al Sambuca a Napoli. I riformatori illuministi non erano riusciti a disincagliare la Sicilia dalla sua situazione storica, quando scoppiò una guerra europea che arrestò ogni trasformazione, provocando una contro-rivoluzione restaurando il vecchio ordine sociale.